Per i surfisti, il surf non è uno sport. Non è nemmeno uno stile di vita. Per un surfista il surf è la vita e, al tempo stesso, una via alla ricerca di sé. “Giorni Selvaggi” è proprio la narrazione di una vita attraverso l’evoluzione di una passione, inseguita tra le onde dei cinque continenti. È una storia d’amore con il surf e con il mare, che come tutti i grandi amori cambia forme ed espressioni nelle diverse fasi della vita, senza mai smettere di ardere.
L’autore e protagonista è William Finnegan, 65 anni, di cui oltre 30 vissuti scrivendo per il New Yorker. Da giornalista ha fatto reportage in ogni continente, su temi che vanno dalla politica estera alla guerra, dal razzismo alla povertà. Ha scritto ben 5 libri. Il premio più ambito, tuttavia, lo ha ottenuto pubblicando la sua appassionata autobiografia sportiva. È la prima volta che un libro sul surf su aggiudica un Pulitzer e si afferma com best seller negli USA. “Se parliamo di libri”, spiega Finnegan in un’intervista “il surf rimane una piccola cosa, considerando quante persone ormai surfano e sono interessate al tema. Sono felice di dirlo, ma il surf è ancora una sottocultura, ricca di arcani difficili da spiegare agli outsider”. Una sottocultura quella del surf, che anche in quanto tale, affascina il pubblico mainstream, non a caso Amazon Studios ha opzionato i diritti cinematografici del libro.
In “Giorni Selvaggi” vengono riassunte le tappe di un percorso di formazione che si compie attraverso una passione totalizzante. Una passione che catapulta il protagonista da un angolo all’altro della terra, all’incessante ricerca di onde esotiche, uniche, perfette. L’autore nasce in California e qui vive la sua infanzia, fino a quando, da adolescente, la famiglia si trasferisce alle Hawaii per seguire il percorso professionale del padre. Si tratta di due luoghi simbolo del surf nel mondo e proprio per questo è interessante ripercorrere lo stato dell’arte dello sport negli anni ’60 e insieme il tessuto sociale in cui il giovane Finnegan si trova a vivere, ad esempio le tensioni razziali che sperimenta sulla propria pelle tra i nativi hawaiani e gli americani bianchi. La narrazione prosegue poi con le avventure universitarie, i primi amori, i primi lavori e un viaggio insieme pionieristico e spensierato alla ricerca del surf perfetto tra le isole del Pacifico del Sud. È in Australia che si compie il passaggio alla vita adulta e prosegue prima con un viaggio in Indonesia e poi con l’esperienza dell’apartheid in Sud Africa, fino alla decisione di tornare negli Stati Uniti e di stabilirsi a New York.
In tutto il libro si percepisce chiaramente la necessità per l’autore di seguire la sua passione nel tempo e nei luoghi, a costo di reinterpretarla e reinventare se stesso. I vagabondaggi giovanili lasciano via via il passo a nuovi equilibri, tra lavoro, famiglia e passioni, nuovi sentimenti e nuove prese di coscienza su di sé e sul mondo, nuovi viaggi più agiati e meno avventurosi. La sintesi rimane però racchiusa nella sensazione impagabile che ogni surfata sa donare di sentirsi pienamente vivo.
Come dice un personaggio del libro “Ti devi arrendere a qualcosa che è più forte di te”. I surfisti fanno quello che fanno “perchè è una cosa pura. Sei solo. Quell’onda è talmente più grande e più forte di te. Sei sempre in minoranza. Ti possono sempre fare a pezzi. Eppure accetti tutto questo e lo trasformi in una piccola, breve forma d’arte senza molto senso.”